Oggi non è un giorno come un altro. Il tempo scorre inesorabile, la memoria si offusca, i ricordi svaniscono. Non oggi. Oggi le lancette mi indicano cento anni. Cento anni da quel maledetto 17 settembre del 1916. Quella data scolpita a fuoco nella memoria di mia nonna di 103 anni, l’età le ha portato via la lucidità ma non quella data, quello stivale, quella medaglia e quel nome: Nova Vas.
Gli unici ricordi di quello che fu suo padre ed un trauma durato tutta la vita, con un’ansia non comune ogni qualvolta qualche caro si fosse messo in viaggio.
Quel 17 settembre del 1916 l’intero fronte Italo-Austroungarico era in fiamme. Il bollettino Cadorna di quel giorno parla chiaro utilizzando parole che lasciano trasparire sudore, fango, morte e sangue.
“Nell’alto Degano (Tagliamento), eccezionale attività delle artiglierie avversarie”, non voglio immaginare quei poveri cristi dei soldati costretti a morire sotto quella che pure Cadorna definiva “eccezionale attività”. “Nelle vicinanze del passo di Volaia caddero più di 2000 colpi di ogni calibro. Le nostre truppe sostennero saldamente la violenza del fuoco nemico”. Duemila esplosioni piovute in poche centinaia di metri di terra.
Ma questo è solo l’inizio dell’elenco di quell’orrenda giornata. “Sulla fronte Giulia, continuò ieri il duello delle artiglierie con particolare intensità nella conca di Plezzo, ove le nostre fanterie eseguirono irruzioni contro le postazioni nemiche del Rombon, dello Javorcek e del Vrsic (M. Nero)”. Proprio qualche giorno fa ero là ad inaugurare la mia mostra fotografica “si combatteva qui!” accompagnato dai colleghi del Gruppo Alpini Milano Centro. Su quelle montagne attorno all’Isonzo ho trovato ogni possibile segno di quell’insensata devastazione umana.
E poi il tragico bollettino prosegue “Sul Carso (…) le instancabili nostre truppe ripresero ieri con rinnovata energia l’attacco delle poderose linee nemiche. Dopo un bombardamento di estrema violenza da ambo le parti, le nostre fanterie assalirono ed espugnarono altri forti ed estesi trinceramenti nemici (…)”.
Ed eccoci all’orologio dei cent’anni, la settima battaglia dell’Isonzo, tra queste “instancabili truppe” c’era anche il mio bisnonno. Quelle trincee le ho visitate. Un groviglio di camminamenti abbandonati e infestati da una natura che ha ripreso il possesso sulla devastazione. Mi immagino quel bombardamento di estrema violenza e poi quell’assalto. Ed il bisnonno che, ferito a morte, alla guida dei suoi uomini, li incita a proseguire verso quegli “altri forti ed estesi trinceramenti nemici”. Mi immagino i suoi uomini e anche loro, gli Ungheresi a difesa di quella trincea. Lontani centinaia di chilometri dalle loro case, almeno tanto quanto il mio bisnonno. Chissà chi erano. Chissà cosa avrebbero da raccontarci.
Cadeva lui e chissà quante centinaia cadevano in quel pezzo di terra così vicino a quella “maledetta Gorizia”. Pochi mesi prima era morto suo fratello, lasciava moglie e tre figli. Chissà quello stesso giorno quante altre famiglie sono state abbandonate per sempre dai propri cari.
Mi sono trovato davanti a quei ragazzi ungheresi proprio qualche giorno fa, al di là di quella collina dove c’è un silenzioso cimitero. E come sempre son rimasto ammutolito.
Cent’anni sono passati ma il dolore è ancora li.
Non dimentico, non dobbiamo dimenticare, oggi una messa solitaria di un cappellano militare ricorderà lui e quei fanti, partiti e mai più tornati.
– Nella fotografia un dettaglio del Sacrario di Redipuglia dove giacciono 100.000 caduti –
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