Oggi vi racconto di una missione fotografica molto particolare, pianificata da tempo ma resa operativa all’alba dello scorso martedì dopo aver monitorato tutta una serie di parametri in primis ambientali.
Attorno al finestrino del fuoristrada sono scorse le prime luci del mattino, il lago di Como, le prime cime innevate nel mentre andavo sempre più a nord est fino a trovarmi tra Svizzera ed Italia nel Passo dello Stelvio. Un passo alto 2770 metri, il secondo più alto d’Europa transitabile in auto, che rimane aperto da tarda primavera fino ai primi d’autunno quando le nevicate ne rendono impossibile l’apertura.
Mi sono lasciato alle spalle la civiltà per entrare in un percorso di venti chilometri di sola natura che termina al villaggio sul passo. Un villaggio che d’inverno viene serrato proprio come nel film di Shining, rifugi ed hotel abbandonati alla neve e al gelo.
Eppure lassù, cento anni fa, correva il triplice confine tra Italia, Austria e Svizzera. Tolta la Svizzera con la sua proverbiale neutralità, Italiani e Austriaci qui hanno versato parecchio sangue.
Trovato il punto di partenza del “sentiero” che avrebbe dovuto portarmi a delle postazioni inizio a vestirmi. Giacca a vento e copri pantaloni in goretex, ghette da neve, passamontagna, sciarpa, occhiali, guanti, piccozza, racchette da neve e cappello Alpino e lentamente inizio a salire nella neve fonda.
L’aria entra gelida nei polmoni, sento le dita dei piedi solo perché continuo a muoverle di proposito, lassù su una cresta noto un Camoscio che mi osserva forse stupito a veder qualcuno. Unico compagno di questa avventura.
La fatica aumenta, si sprofonda parecchio, lo sguardo è rivolto a quelle rocce oltre le quali ci sono le postazioni. Dopo due ore arrivo al primo segno. Un traliccio del telegrafo appeso alle rocce. Il passo si fa troppo pericoloso e la neve troppo farinosa. Un canaletto da passare non mi dà nessuna garanzia di tenuta. Guardo quelle rocce e so di essere vicino ma tra me e me penso, passare di qui potrebbe essere l’ultima volta. Vedo la mia ombra accompagnata da quella della piuma nera del mio cappello Alpino stagliarsi sul bianco della neve intonsa.
Tra me e me risuonano le note del Canto Alpino che recita “su per monti vien giù la neve, la tormenta dell’inverno, ma se venisse anche l’inferno, sol l’Alpin riman lassù” ed un brivido di gelo e solitudine mi assale. Su queste Cime e ancora più su c’erano soldati che ci passavano gli inverni, nemmeno sognando gli equipaggiamenti di oggi, e molti son morti o travolti dalle valanghe o durante gli audaci quanto impensabili combattimenti in cresta.
Questa era la Guerra Bianca, una guerra atroce e dimenticata, dove per ogni uomo in vetta ce n’erano sette a valle per prendersi cura degli aspetti logistici. Lassù, fuori dal mondo, loro, il ghiaccio, la neve ed il nemico che sopportava le medesime pene.
Inizio a discendere pensando a quanti invece non hanno avuto la possibilità di scegliere e con onore sono andati avanti rimanendo lassù.
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